venerdì 1 aprile 2016

REFERENDUM del 17 aprile, Si e NO a confronto

Ho provato a leggere e riporto in questo post, gli articoli che parlano delle ragioni del SI e delle ragioni del NO, per il quesito referendario sulla durata delle concessioni petrolifere, sulle TRIVELLE.
I numeri si possono ricavare in modi diversi, tutti razionali e dimostrabili, tutti veri. Allo stesso tempo non completamente veri, tutti imprecisi, tutti FALSI.
I numeri possono essere scelti, usati come serve. Un uso comunque in buona fede, per il progresso e la razionalità, oppure per l'ambiente.
Potete leggere quanto volete, per farvi informare, persuadere, convince. Scegliere le fonti oppure accontentarvi del primo che capita. Ci sarà sempre un po' di verità, un po' di ragione. Se non volete perdere tempo ad informarvi su un tema di scarsa utilità, oppure nessuno vi convince
Cosa fare?
Ascoltate chi vi sta più simpatico.

Se vi piace Greenpeace, o la Boschi, Legambiente o la Total, probabilmente è inutile cercare di convincervi.


Il Fatto Quotidiano.

30 marzo 2016
Luciana Gaita

Referendum trivelle, la guida: lavoro, inquinamento e politiche energetiche. Fronte del Sì e del No a confronto

Il 17 aprile italiani alle urne per votare sulla durata delle concessioni alle società petrolifere. Enrico Gagliano (promotore della tornata e fondatore del coordinamento No Triv) e Umberto Minopoli (presidente dell’Associazione italiana nucleare) rispondono alle domande de ilfattoquotidiano.it sui temi centrali della consultazione
 
Occupazione, inquinamento, ambiente e politiche energetiche. Ecco i temi su cui ci si deve interrogare prima di votare ‘sì’ o ‘no’ al referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile, che per essere valido deve raggiungere il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto. Oggi in Italia non si possono ottenere permessi di ricerca o prospezione né concessioni di coltivazione di petrolio e gas entro le 12 miglia dalla costa. Eppure in quelle aree off limits alcune società continuano le loro attività. Lo consente il comma 17 dell’articolo 6 del decreto legislativo 152 del 2006, sostituito dal comma 239 dell’articolo 1 della legge di Stabilità (del 28 dicembre scorso) che permette a chi ha già ottenuto una concessione di rinnovarla continuando l’attività ‘per la durata di vita utile del giacimento’. Se prima le concessioni di coltivazione avevano una durata di 30 anni (prorogabile per periodi di 10 e 5 anni) e i permessi di ricerca di 6 anni (anche questi prorogabili), la legge di Stabilità ha decretato che i titoli già rilasciati non abbiano più scadenza.

PERCHE’ LA LEGGE IN VIGORE E’ FAVOREVOLE ALLE SOCIETA’ PETROLIFERE
Un particolare non di poco conto. Perché dismettere un impianto comporta costi altissimi per le società concessionarie, che quindi puntano a estrarre il minimo indispensabile per il maggior arco di tempo possibile. Questo modus operandi, inoltre, ha anche un’altra spiegazione, tutta economica: le franchigie. Le società petrolifere, infatti, non pagano le royalties se producono meno di 20mila tonnellate di petrolio su terra e meno di 50mila in mare. Ma rivendono tutto a prezzo pieno. E se si superano le soglie, ecco che scatta un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata. Morale: il 7% delle royalties viene pagato solo dopo le prime 50mila tonnellate di greggio estratto e neppure per intero. “Sistema comodo per le società, che possono mantenere in vita impianti da cui producono quantità modeste di petrolio”, spiega a ilfattoquotidiano.it Andrea Boraschi, responsabile della Campagna Energia e Clima di Greenpeace. “Smantellare costa di più – aggiunge – meglio continuare a produrre anche poco, sotto la soglia della franchigia, senza pagare le royalties”. In Italia, inoltre, sono esentate dal pagamento le produzioni in regime di permesso di ricerca. Ecco perché per chi estrae è fondamentale quella “durata di vita utile del giacimento“.

NUOVE TRIVELLE? SI’, ECCO PERCHE’
Che non scongiura la possibilità di costruire nuovi impianti entro le 12 miglia, specie se previsto nel programma originario delle concessioni già rilasciate. Se il giacimento può essere ancora sfruttato, infatti, le aziende potranno rinnovare gli impianti e aumentare la produzione estrattiva, chiedendo di portare a termine il programma. E potrebbero anche avere bisogno di nuove piattaforme e nuovi pozzi. Quindi nuove trivelle. Sta accadendo in Sicilia, con il progetto della Vega B (è prevista la realizzazione dei primi 4 pozzi, a cui se ne aggiungeranno altri 8), che potrebbe sorgere all’interno della concessione per la Vega A.  Situazione simile a quella di Rospo Mare (di fronte all’Abruzzo) per la quale si parla di altri 4 pozzi.

COSA SI VA A VOTARE: IL QUESITO
Che cosa, quindi, i cittadini italiani potranno cambiare in concreto con il loro voto? Potranno decidere se abrogare (con il ‘sì’) questa parte di norma e far valere, anche per i titoli già rilasciati, il divieto di ‘operare’ entro le 12 miglia dalla costa, facendo cessare le attività in corso in mare. Non immediatamente, ma alla data di scadenza ‘naturale’ della concessione. Anche se ci fossero ancora petrolio o gas da estrarre. Se passa il ‘no’, invece, si va avanti fino all’esaurimento. In Italia sono state rilasciate 35 concessioni per estrazione di idrocarburi (coltivazione) in mare che interessano anche aree entro le 12 miglia dalla costa. Ventisei sono quelle produttive tra il mare Adriatico, il mar Ionio e il canale di Sicilia, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi. L’attuale norma salva anche i permessi di ricerca già rilasciati: sono dodici, compreso quello che riguarda Ombrina Mare. Partendo dai nodi attorno a cui si sviluppa il dibattito, ilfattoquotidiano. it ha chiesto le ragioni del ‘sì’ e quelle del ‘no’ rispettivamente a Enrico Gagliano, tra i fondatori del coordinamento nazionale NoTriv e primo promotore del referendum, e a Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione italiana nucleare.


Sulla questione occupazione si sono spaccati anche i sindacati. Per la Cgil della Basilicata lo sfruttamento della Val D’Agri non ha portato benefici, mentre la Cgil nazionale, con il segretario dei chimici Emilio Miceli, sostiene che votare ‘no’ tuteli migliaia di posti di lavoro. Solo nella provincia di Ravenna si parla di 7mila persone impiegate nel settore dell’offshore. L’Italia può permettersi di chiudere gli impianti?

Enrico Gagliano per il ‘sì’ – “La vittoria del ‘sì’ non determinerà alcuna cessazione immediata delle attività offshore, che proseguirebbero fino alla loro scadenza per terminare in un arco di tempo che oscilla da un minimo di 1 anno e 3 mesi a un massimo di 11 anni. Sulla questione disoccupazione si fa terrorismo mediatico: il referendum riguarda concessioni che erogano il 9% del petrolio e il 27% di tutto il gas estratti in Italia; i pozzi di gas hanno superato da anni il picco di produzione e hanno una vita residua media di 5/6 anni, un tempo sufficiente per riqualificare il settore”.

Umberto Minopoli per il ‘no– “L’opportunità offerta dalla scoperta degli idrocarburi in Italia ha consentito la nascita dell’Eni e, intorno a esso, di una miriade di aziende che, partendo dal business nazionale, hanno sviluppato tecnologie d’avanguardia e sono diventate leader nel mondo. Il referendum, imponendo la fermata della produzione di campi a gas già funzionanti in piena sicurezza e in modo redditizio, bloccherebbe il motore che ha finora consentito alle aziende di investire in Italia. Il fenomeno sta già verificandosi a Ravenna e in Adriatico. Il ragionamento dei sindacati lucani è totalmente miope.

Il caso Ravenna è emblematico. Secondo alcuni studiosi gli impianti non danneggiano il turismo, secondo altri in quell’area le estrazioni di acqua e gas dal sottosuolo accelerano il fenomeno della subsidenza costringendo a investimenti per tutelare spiagge e suolo.

EG per il ‘sì’ – “Dove sono finiti quelli che – Prodi in testa – indicavano nella Croazia il modello da seguire? Il nuovo governo croato ha deciso di bloccare i progetti di estrazione in Adriatico per difendere il turismo. Noi, invece, scegliamo le trivelle. L’accelerazione del fenomeno della subsidenza è un dato: secondo l’Arpa dell’Emilia Romagna, in prossimità del giacimento di gas Angela-Angelina le estrazioni hanno prodotto in oltre 20 anni, sui fondali compresi tra i 4 e i 6 metri, abbassamenti superiori a 2 metri. Da Nord a Sud: anche in Calabria, vicino Crotone, Leonardo Seeber, sismologo della Columbia University, ha registrato un nesso tra estrazioni di gas in mare e subsidenza. Su Capo Colonna è stato eretto un muro di silenzio perché in quell’area dello Ionio, molto vicino alla costa, si estrae quasi il 15 per cento di tutto il gas estratto in Italia”.

UM per il ‘no– “Il Turismo a Ravenna è un dato di fatto. I veri problemi ci sono stati al più in passato quando una raffineria e un polo petrolchimico (che importavano petrolio dall’estero) hanno obbligato a trovare un equilibrio complesso. Ma dal settore ricerca e produzione di idrocarburi si sono solo avuti benefici importanti, fino a giungere alla simbiosi fra piattaforme di produzione di gas naturale e la coltivazione di cozze con il ripopolamento della fauna ittica. Sulla subsidenza sono stati effettuati studi approfonditi a altamente scientifici, con la creazione di modelli elaborati da università e centri di ricerca. La subsidenza riguarda tutta la fascia appenninica con un costante spostamento verso Est, che porterà fra un milione di anni alla scomparsa del Mare Adriatico”.

Quali sono le conseguenze sull’ecosistema terra-mare, sull’inquinamento di acqua, sulla tutela della biodiversità e della pesca?

EG per il ‘sì’ – “Le società che estraggono escludono il rischio di incidenti in mare, ma questa possibilità non può essere esclusa. Prendiamo per esempio la concessione di olio ‘Rospo Mare’ di Eni e di Edison (nell’offshore abruzzo-molisano), ad un tiro di schioppo dalle Tremiti e a poche miglia dal parco marino di Punta Penne. Qui, tra il 2005 ed il 2013, si sono verificati due sversamenti: l’ultima volta sono finiti in mare mille litri di idrocarburo. Si è sfiorato un disastro ambientale in l’Adriatico. Rospo Mare è una delle concessioni interessate dal referendum: se dovesse vincere il ‘no’, Edison ed Eni potrebbero decidere di aprire altri pozzi e andare avanti finché ce n’è o finché lo riterranno conveniente”.

UM per il ‘no– “Basta visitare una piattaforma o assistere al processo di perforazione per rendersi conto del livello di rispetto ambientale garantito con le tecnologie sviluppate dalle nostre aziende. Nulla viene scaricato a mare, ma trattato e riportato a terra in discariche specializzate. I sistemi di trattamento delle acque consentono spesso la loro piena potabilità. In California, in seguito al totale sfruttamento dei giacimenti petroliferi, bisognava smantellare le piattaforme. Ed è proprio il movimento ambientalista a chiedere di lasciare lì le piattaforme divenute ormai un tutt’uno con l’ecosistema marino e punto di ripopolazione della fauna”.

È vero che lo stop della produzione di idrocarburi nel nostro Paese richiederebbe un aumento delle importazioni e il maggior traffico di petroliere nei porti italiani?

EG per il ‘sì’ – “Per il gas non si capisce bene di cosa stiamo parlando: quasi tutto quello importato arriva in Italia attraverso 5 metanodotti e solo per il 7% con navi metaniere sotto forma di gas liquefatto. Inoltre, la minore produzione di gas, che è pari ad appena il 3% del fabbisogno nazionale, potrebbe essere compensata puntando su rinnovabili ed efficienza energetica. Si potrebbero recuperare così i 60mila posti di lavoro persi dal 2013 a oggi, dando uno scossone al Pil. Secondo Enel e Confindustria, l’efficientamento energetico potrebbero creare 400mila nuovi posti e un giro d’affari compreso tra i 350 e i 510 miliardi. Quanto all’aumento delle estrazioni di petrolio nazionale è causa di maggior traffico nei porti italiani e di inquinamento”.




UM per il ‘no’ – “La fermata della produzione di gas e petrolio nazionale comporta la piena sostituzione con volumi equivalenti importati dall’estero. Bisognerà pagare in valuta e trasportare gli idrocarburi con petroliere e con gasiere di Lng (ma poi nessuno vuole I rigassificatori!). Storicamente i grandi inquinamenti a mare sono avvenuti nella fase del trasporto. Quindi il cambiamento farà aumentare i rischi. A meno che venga proposta per legge una riduzione dei consumi petroliferi, il che vuol dire ridurre drasticamente i trasporti (aerei, auto, camion, traghetti, navi, moto), limitare le produzioni delle aziende metalmeccaniche e rinunciare a coprire manto stradale e autostradale con gli asfalti di alta qualità prodotti dall’industria italiana”.


Quanto petrolio e quanto gas abbiamo? Le trivelle sono un buon affare?

EG per il ‘si’ – “Le trivelle sono state un buon affare per l’Italia nel periodo del boom economico. Enrico Mattei ebbe intuizioni geniali, ma oggi si proietterebbe verso il futuro. Con le riserve certe di idrocarburi stimate dal Mise potremmo far fronte alla domanda interna di petrolio per appena 7 settimane e di gas per 6 mesi, determinando ricadute negative sul turismo (10% del Pil e 3 milioni di occupati), la pesca (2,5% del Pil e 350mila occupati) e il settore agroalimentare (8,7% del Pil 3,3 milioni di occupati). Royalties a parte, che secondo la Corte dei Conti non sono tasse, il rischio industriale dovrebbe spingerci ad abbandonare progressivamente le fonti fossili.


UM per il ‘no’- “Ad oggi, l’industria petrolifera finanzia le sue attività e si assume tutti i rischi economici della ricerca senza alcun aiuto degli Stati. Paga regolarmente le royalties e le tasse, contribuendo al benessere collettivo. Non è il caso delle rinnovabili, che hanno bisogno di costanti e importanti finanziamenti pubblici, pagati dai cittadini attraverso le bollette dell’elettricità o con la tassazione diretta. Con il livello della ricerca raggiunta ad oggi, sarebbe impossibile sostituire gli idrocarburi con fonti rinnovabili. A meno che si decida di fermare il Paese per qualche decennio. No aerei, no tir, no autovetture. Per circa 30 anni”.



La repubblica

18 marzo 2016

Il 17 aprile si vota sul quesito voluto da Regioni preoccupate per le conseguenze ambientali e per i contraccolpi sul turismo di un maggiore sfruttamento degli idrocarburi. Ecco le ragioni dei due schieramenti

di ANTONIO CIANCIULLO

ROMA - Il 17 aprile si voterà sulle trivelle. Il referendum è stato voluto da 9 Regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto) preoccupate per le conseguenze ambientali e per i contraccolpi sul turismo di un maggiore sfruttamento degli idrocarburi. Non propone un alt immediato né generalizzato. Chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Come è accaduto per altri referendum, il quesito appare di portata limitata ma il significato della consultazione popolare è più ampio: in gioco ci sono il rapporto tra energia e territorio, il ruolo dei combustibili fossili, il futuro del referendum come strumento di democrazia.

La domanda che si troverà stampata sulle schede è "Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c'è ancora gas o petrolio?" Dunque chi vuole - in prospettiva -  eliminare le trivelle dai mari italiani deve votare sì, chi vuole che le trivelle restino senza una scadenza deve votare no.

I due schieramenti sono rappresentate da comitati. Da una parte c'è il Comitato Vota sì per fermare le trivelle "Il petrolio è scaduto: cambia energia!") a cui hanno aderito oltre 160 associazioni (dall'Arci alla Fiom, da quasi tutte le associazioni ambientaliste a quelle dei consumatori, dal Touring Club all'alleanza cooperative della pesca). Dall'altra un gruppo che si definisce "ottimisti e razionali" e comprende nuclearisti convinti come Gianfranco Borghini (presidente del comitato) e Chicco Testa, il presidente di Nomisma energia Davide Tabarelli, la presidente degli Amici della Terra Rosa Filippini. Ecco, punto per punto, le ragioni dei due schieramenti.

Quanto petrolio è in gioco?

Le ragioni del sì
Secondo i calcoli di Legambiente, elaborati su dati del ministero dello Sviluppo economico, le piattaforme soggette a referendum coprono meno dell'1% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di quello di gas. Se le riserve marine di petrolio venissero usate per coprire l'intero fabbisogno nazionale, durerebbero meno di due mesi.


Le ragioni del no
Secondo i calcoli del Comitato Ottimisti e razionali la produzione italiana di gas e di petrolio - a terra e in mare- copre, rispettivamente, l'11,8% e il 10,3% del nostro fabbisogno. (Visto che questo dato comprende anche le piattaforme che non rischiano la chiusura perché non sono oggetto di referendum, su questo punto le stime dei due schieramenti non si allontanano: l'85% del petrolio italiano viene dai pozzi a terra, non in discussione, e un terzo di quello estratto in mare viene da una piattaforma oltre le 12 miglia, non in discussione).

Qual è l'impatto del petrolio in mare?

Le ragioni del sì.
A preoccupare non sono solo gli incidenti ma anche le operazioni di routine che provocano un inquinamento di fondo: in mare aperto la densità media del catrame depositato sui nostri fondali raggiunge una densità di 38 milligrammi per metro quadrato: tre volte superiore a quella del Mar dei Sargassi, che è al secondo posto di questa classifica negativa con 10 microgrammi per metro quadrato.

Inoltre il mare italiano accanto alle piattaforme estrattive porta l'impronta del petrolio. Due terzi delle piattaforme ha sedimenti con un inquinamento oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. I dati sono stati forniti da Greenpeace e vengono da una fonte ufficiale, il ministero dell'Ambiente: si riferiscono a monitoraggi effettuati da Ispra, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell'Ambiente, su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine.

Le ragioni del no
L'estrazione di gas è sicura. C'è un controllo costante dell'Ispra, dell'Istituto Nazionale di geofisica, di quello di geologia e di quello di oceanografia. C'è il controllo delle Capitanerie di porto, delle Usl e delle Asl nonché quello dell'Istituto superiore di Sanità e dei ministeri competenti. Mai sono stati segnalati incidenti o pericoli di un qualche rilievo. Il gas non danneggia l'ambiente, le piattaforme sono aree di ripopolamento ittico.

I limiti presi a riferimento per le sostanze oggetto di monitoraggio e riportati nel rapporto di Greenpeace non sono limiti di legge applicabili alle attività offshore di produzione del gas metano. Valgono per corpi idrici superficiali (laghi, fiumi, acque di transizione, acque marine costiere distanti 1 miglio dalla costa) e in corpi idrici sotterranei.

Fermando le trivelle perdiamo una risorsa preziosa?

Le ragioni del sì
Dopo il rilascio della concessione gli idrocarburi diventano proprietà di chi li estrae. Per le attività in mare la società petrolifera è tenuta a versare alle casse dello Stato il 7% del valore del petrolio e il 10% di quello del gas. Dunque: il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere portato via e venduto altrove. Inoltre le società petrolifere godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. I posti di lavoro immediatamente a rischio (calo del turismo, diminuzione dell'appeal della bellezza del paese) sono molti di più di quelli che nel corso dei prossimi decenni si perderebbero man mano che scadono le licenze.


Le ragioni del no
L'industria del petrolio e del gas è solida. Il contributo versato alle casse dello Stato è rilevante: 800 milioni di tasse, 400 di royalties e concessioni. Le attività legate all'estrazione danno lavoro diretto a più di 10.000 persone.

Non fermando le trivelle perdiamo una risorsa preziosa?

Le ragioni del sì
Sì, perché le trivelle mettono a rischio la vera ricchezza del Paese: il turismo, che contribuisce ogni anno a circa il 10% del Pil nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di 160 miliardi di euro; la pesca, che produce il 2,5% del Pil e dà lavoro a quasi 350.000 persone; il patrimonio culturale, che vale il 5,4% del Pil e dà lavoro a 1 milione e 400.000 persone.

Le ragioni del no
L'attività estrattiva del gas metano non danneggia in alcun modo il turismo e le altre attività. Il 50% del gas viene dalle piattaforme che si trovano nell'alto Adriatico; nessuna delle numerose località balneari e artistiche, a cominciare dalla splendida Ravenna, ha lamentato danni.

Insistere sulle trivelle è compatibile con gli impegni a difesa del clima?

Le ragioni del sì

Alla conferenza sul clima di Parigi 194 Paesi si sono impegnati a mantenere l'aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile un taglio radicale e rapido dell'uso dei combustibili fossili. Per mettere il mondo al riparo dalla crescita di disastri meteo come alluvioni, uragani e siccità prolungate, due terzi delle riserve di combustibili fossili dovranno restare sotto terra. In questo quadro investire sul petrolio potrebbe rivelarsi un azzardo economico.

Le ragioni del no
Il futuro sarà delle rinnovabili, ma vanno integrate perché la loro affidabilità è limitata. Sole, acqua e vento non sono elementi che possiamo "gestire" a nostro piacimento.  Non siamo pertanto in grado di prevedere quanta energia elettrica sarà, in un dato periodo, prodotta dal fotovoltaico, dall'eolico o dalle centrali idroelettriche. E quindi, senza i combustibili fossili, non possiamo programmare liberamente i nostri consumi, come siamo abituati e talvolta obbligati a fare.

I referendum servono?

Le ragioni del sì
 "Si deve comunque andare a votare - afferma il presidente della Camera Laura Boldrini - perché il referendum é un esercizio importante di democrazia, tanto più quando i cittadini sono chiamati ad esprimersi senza filtri. Il mio è un invito al voto. Dopodiché ognuno vota come ritiene più opportuno".

Le ragioni del no
Diciamo agli italiani: "Non andate a votare, non tirate la volata a chi vuole soltanto distruggere".


E quanto costano?

Le ragioni del sì
Il mancato abbinamento alle imminenti elezioni amministrative, deciso per rendere più difficile il raggiungimento del quorum, ha comportato uno spreco di oltre 360 milioni - l'equivalente degli introiti annuali dalle royalties dalle trivellazioni attualmente presenti nel Paese.


Le ragioni del no
Questo referendum non ha senso e non si doveva fare: è uno spreco di 400 milioni.



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